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Lucia Perrucci racconta “L’uomo che cuce il tempo”

È in gara con “L’uomo che cuce il tempo” per la conquista della statuetta nella sezione cortometraggi. Si chiama Lucia Perrucci, e originaria di Manduria, in provincia di Taranto, e arriva al David con un lavoro girato in coppia con Ezio Azzollini.

Cominciamo subito con la domanda di presentazione. Chi è …?

Una portatrice sana di fantasia. A volte anche malsana.
Fantasia e voglia di raccontare che ho sempre cercato di incanalare nella scrittura, insieme ai primi esperimenti con la macchina da presa.
L’incontro con Ezio Azzollini, coautore de “L’uomo che cuce il tempo”, sui banchi della Giffoni Academy, sui quali abbiamo studiato sceneggiatura e regia, ci ha portato a quella che è la nostra prima opera a quattro mani.

Tre domande da appassionato: qual è il suo regista preferito e il film/cortometraggio che non smetterebbe mai di rivedere? Perché?

Ho sognato, pianto, avuto il mal di pancia e assorbito ispirazione con una miriade di film e registi. Ma ognuno di loro fotografa sempre un momento particolare della mia vita.
Uno di questi, a cui entrambi siamo particolarmente legati, riguarda proprio questo corto. Eravamo a Roma, alla vigilia di una proiezione importante, e un po’ per scaramanzia, un po’ per ispirazione, ci è capitato di rivedere “Che cosa sono le nuvole?” di Pasolini. Un momento unico, perché è stato come mettere a fuoco il concetto di cortometraggio per come lo intendiamo noi: non per forza narcisismi da chi ha l’obiettivo più lungo, ma poesia. Quella che basta.

Da dove nasce l’idea per un cortometraggio? Dove trova gli spunti per realizzare le sue opere?

Solitamente c’è prima il bagliore improvviso, che poi però va messo a fuoco. C’è poi la “prova del giorno dopo”, cioè ti addormenti, ti svegli e magari quel bagliore ti sembra una fesseria. Se invece quel bagliore sopravvive, ci si lavora su e, quando si è in due, si deve anche affrontare una lunga serie di sanguinosi confronti. In questo caso l’idea era più che altro una voglia. Una voglia di Tempo, per dare forma ad un desiderio. La voglia di raccontare e di rendere palpabile lo spettro di una storia ha dato vita al protagonista de “L’uomo che cuce il tempo”, un custode di un cimitero molto speciale, che non si rassegna nemmeno davanti alla morte.

La cosa più facile e quella più difficile durante le riprese?

La cosa più difficile è accettare che qualche volta le cose che pensi e le cose che giri possano non coincidere. Ma a volte da una cosa che non prevedi vengono fuori dei felici pasticci rispetto a quanto pianificato. E forse il risultato è anche migliore.
La cosa più facile non esiste. L’idea che ci siamo fatti è che la settima arte è quella che incarna alla perfezione la legge di Murphy: 5 giorni di riprese sono 5 giorni di slalom tra imprevisti e cose che non ti aspettavi. Ma è bellissimo.

Corto è davvero più bello?

No. Ma corto è davvero il più bell’inizio. Piuttosto che un lungo maldestro e che parli di te molto poco, meglio dieci anni di carriera sfornando piccole perle. O anche meno perle, ma che almeno ti appartengano in maniera sincera.

Qual è il suo stato d’animo quando, per necessità di lunghezza della pellicola, deve rinunciare ad una scena ben fatta?

Se la scena è ben fatta, difficilmente ci si rinuncia. Nel caso de “L’uomo che cuce il tempo”, proprio per non rinunciare a cose alle quali tenevamo particolarmente abbiamo lavorato di cesello al montaggio. Non è detto però che soluzioni apparentemente drastiche non possano portare ad un risultato molto più interessante. Per quella che è la nostra esperienza finora, fare salti mortali al montaggio può dare belle soddisfazioni.

Nell’ambito del cinema italiano, in che misura è possibile proporre delle nuove idee e quanto invece si deve venire a patti con i produttori e i gusti del grande pubblico?

Bisogna essere sinceri, artisticamente sinceri. Da vergini è facile dirlo all’inizio, ma nelle tue cose, grandi o piccole, low cost o multimilionarie, devi esserci tu, la tua storia, e il modo di raccontarla. Se menti, sei un commerciante. E se menti, lo sai solo tu.

Non può mancare una considerazione per l’oscar di Paolo Sorrentino…

Si è detto tanto e forse anche troppo, a noi è piaciuto e quella notte siamo stati due ultras. Ma questo non conta. Conta che comunque la si guardi è un po’ d’aria per chi, a tutti i livelli, vuole fare arte in Italia. Tra l’altro, siamo molto legati a “La Grande Bellezza”, perché, per un regalo bellissimo del fato, la nostra prima proiezione romana seguì, all’Isola Tiberina, proprio il film di Sorrentino. Per noi la Bellezza è stata anche questa.

Il David di Donatello è uno dei premi artistici nazionali più importanti. Cosa si prova ad essere inseriti tra i possibili vincitori della statuetta?

Chiaramente essere in una lista del genere è inebriante. Una lista, per di più, così lunga, che già di per sé è una bella notizia per il Paese. Ma in realtà, vuol dire due cose: esserci ed aver fatto. Per gli anni a venire non possiamo che augurarci una cosa migliore di queste due.

Prossimi progetti? Il sogno nel cassetto?

I progetti sono tanti. Soprattutto in ambito letterario, dove, per fortuna, di scrivere non ne ho mai abbastanza. Sceneggiature in cantiere, anche a quattro mani, e qualche esperimento favolistico rivolto non solo ai più piccoli. Sulla carta mi piace pensare che tutto sarà possibile, perché fortunatamente sognare non costa ancora niente, e almeno in questa fase siamo tutti sulla stessa barca, e almeno questo, nessuno può portarcelo via.

>>> Leggi l’intervista al coregista Ezio Azzollini